Studio Alma Rinaldi

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Questo assetto cambia dopo l’art. 189 del CCI.

(Segue dalla prima parte)

La novità assoluta nella materia lavoristica è costituita dall’introduzione di un’ampia ed articolata norma racchiusa nell’art. 189 CCI, volta a disciplinare specificatamente gli effetti della procedura di liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro subordinato pendenti al momento di apertura della procedura e nel corso di essa.

La norma contenuta nell’art. 189, CCI cambia tutto perché prevede tutta una serie di istituti che non c’erano nel diritto del lavoro, recupera alcune soluzioni giurisprudenziali ed introduce anche delle novità importantissime.

La disposizione si apre statuendo che “L’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento”.

La dichiarazione ripropone, in effetti, la previsione dell’art. 2119, comma 2, c.c. per cui “il fallimento non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto”, specificando, in termini meglio attinenti all’attuale quadro normativo, che l’apertura della liquidazione giudiziale non integra di per sé un motivo di licenziamento.

Tuttalpiù, vale la pena anticipare, come il principio in questione – utilizzando il termine “motivo” anziché quello di “giusta causa” – comporti che l’apertura della liquidazione giudiziale non configuri, di per sé, nemmeno una valida giustificazione per il recesso con preavviso da parte del lavoratore, essendo possibile che l’esercizio dell’impresa del debitore prosegua (o riprenda) da parte del curatore o da parte di un eventuale cessionario dell’azienda (o di un ramo di essa).

Il secondo capoverso del comma 1 continua stabilendo che “I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.

A ben vedere, sotto questo profilo, non c’è una particolare innovazione tant’è che risulta così confermata la scelta di assoggettare i rapporti di lavoro pendenti al regime della sospensione, come già previsto, secondo l’interpretazione più diffusa ed accreditata in dottrina e giurisprudenza, dall’art. 72 l. fall.

Il legislatore del CCI ha ritenuto che anche il contratto di lavoro sia tra quelli per i quali al curatore debba essere riconosciuto uno spatium deliberandi al fine di considerare se sia più opportuno e conveniente per la procedura subentrare nel rapporto ovvero sciogliersi dallo stesso.

Beninteso che tale valutazione è strettamente legata, nella quasi totalità dei casi, all’esercizio dell’impresa in via diretta, attraverso l’esercizio provvisorio (disciplinato dal legislatore della riforma dall’art. 211, CCI), ovvero in via indiretta mediante affitto o vendita dell’azienda o di un suo ramo (art. 212, CCI).

Alla quiescenza del rapporto di lavoro consegue il congelamento di ogni istituto contrattuale, primo tra tutti la retribuzione corrente, ma anche le ferie, i permessi, le mensilità aggiuntive, il trattamento di fine rapporto e ogni altro istituto connesso con l’anzianità aziendale.

Ciò si ricava dallo stesso art. 189, che al comma 2 stabilisce che “Il recesso del curatore dai rapporti di lavoro subordinato sospesi ai sensi del comma 1 ha effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Il subentro del curatore nei rapporti di lavoro subordinato sospesi decorre dalla comunicazione dal medesimo effettuata ai lavoratori”.

Conseguentemente, per quanto lo stop alla prestazione lavorativa certamente non dipenda dalla volontà del lavoratore, quest’ultimo si trova senza retribuzione o altre indennità di cassa integrazione – anche qualora venisse esercitato il recesso, che la norma espressamente fa retroagire alla data della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale – (attesa l’abrogazione dell’art. 3, comma 1, legge n. 223/1991 che disciplinava la cd. “CIGS concorsuale”) e, potenzialmente, per un periodo di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, termine massimo previsto dal comma 3, art. 189, decorso il quale, senza che il curatore abbia comunicato il subentro, il rapporto di lavoro si intende risolto di diritto.

Tra gli aspetti più interessanti della norma in parola, innanzi tutto l’efficacia temporale; sappiamo che l’atto di recesso retroagisce, e questo è un effetto assolutamente innovativo per il funzionamento del lavoro; lo chiama recesso e non licenziamento, mentre il comma 8 dell’art. 189 affianca recesso e licenziamento sotto il profilo causale. Questo recesso del comma 3 dell’art. 189 non opera alcun rinvio alla l. 604/1966, art. 3 e, quindi, non richiama le causali, le motivazioni del licenziamento classiche del rapporto di lavoro.

Si deve tra l’altro tenere in considerazione che, spesso, la manodopera di un’azienda dichiarata in liquidazione giudiziale subisce già da mesi omesse o parziali percezioni delle retribuzioni.

Non si può dunque non constatare che la disciplina delegata non abbia implementato la proposta più innovativa elaborata dalla Commissione ministeriale, fondata sull’introduzione di uno speciale trattamento di disoccupazione fruibile dai lavoratori durante il periodo di sospensione del rapporto conseguente alla dichiarazione di liquidazione giudiziale.

È rimasta così, allo stato, priva di soluzione politica la carenza socialmente più avvertita dai lavoratori, cioè quella di una qualsivoglia forma di sostegno del reddito durante il periodo di sospensione, essendo venuto meno il supporto della “CIGS concorsuale”.

Se, dunque, con riferimento agli effetti immediati dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale ai danni del datore di lavoro le indicazioni del Codice sono sufficientemente chiare, non altrettanto può dirsi per ciò che riguarda la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro da parte del curatore, argomento sul quale il CCI era chiamato ad esprime finalmente un’indicazione legislativa inequivocabile.

L’espresso richiamo alla disciplina giuslavorista in materia di recesso del curatore è invece rimasta nell’ambito del comma 9 dell’art. 189 del CCI con riferimento alle ipotesi di esercizio provvisorio e, quindi, di prosecuzione del rapporto di lavoro quale conseguenza della prosecuzione dell’attività d’impresa pur a seguito dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale; il che può avere il senso di voler rimarcare la differenza fra due ipotesi di recesso (quello da un rapporto del quale il curatore non è diventato parte, avendo scelto di non subentrarvi, e quello da un rapporto del quale il curatore è diventato ad ogni effetto di legge parte sostanziale) che in effetti sono ontologicamente diverse.

Il fatto che il comma 8 dell’art. 189 individui quattro diverse modalità di cessazione del rapporto di lavoro (recesso del curatore, licenziamento, dimissioni e risoluzione di diritto), il che consente di sostenere che la disciplina del recesso in caso di mancato subentro del curatore nel rapporto non sia assimilabile a quella del licenziamento intimato dal curatore che è invece subentrato in esso.

Le quattro diverse fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro or ora menzionate sono accomunate dal fatto che, secondo quanto previsto dal comma 8 dell’art. 189, in tutte e quattro è dovuta a favore del lavoratore l’indennità di mancato preavviso; specifica a tale proposito la norma, con ciò superando i dubbi che in proposito sono affiorati in dottrina ed in giurisprudenza sulla collocazione del relativo credito in privilegio ai sensi dell’art. 2751 bis c.c. ovvero in prededuzione, che tale credito del lavoratore deve essere ammesso al passivo della liquidazione giudiziale, al pari del trattamento di fine rapporto, “come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale”, quindi come credito concorsuale e non come debito della massa da pagarsi in prededuzione.

Tale ultima indicazione risulta applicabile, in virtù del richiamo che il comma 9 dell’art. 189 contiene al comma 8 dello stesso articolo, anche ai casi di subentro del curatore nel rapporto di lavoro per effetto della prosecuzione dell’esercizio dell’impresa, a meno che non se ne voglia escludere l’estensione in virtù della locuzione “in quanto compatibile” utilizzata dal Legislatore della riforma; ciò desta a mio parere qualche perplessità in considerazione del fatto che, in caso di esercizio provvisorio, il curatore subentra ad ogni effetto di legge nel rapporto di lavoro, dal che dovrebbe discendere la conseguenza che esso diventa a tutti gli effetti un rapporto i cui oneri devono ricadere sull’attivo fallimentare in prededuzione; sarebbe risultato più logico e coerente con i principi generali, quindi, ritenere che come debiti della massa con diritto alla prededuzione debbano essere qualificati (oltre che le retribuzioni e gli oneri contributivi correnti maturati nel corso dell’esercizio provvisorio, ovviamente) anche l’indennità sostitutiva del preavviso e le quote di TFR maturate nel corso dell’esercizio provvisorio del comma 7 dell’art. 194, che prevede invece la collocazione come debiti anteriori all’apertura della procedura di liquidazione giudiziale.

L’art. 189, comma 5, nella sua formulazione originaria, prevede testualmente che solamente il decorso dei quattro mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale consentirebbe ex lege di considerare le dimissioni fondate su giusta causa.

Ovvero, il lavoratore non potrebbe nemmeno ripiegare sulle dimissioni per uscire da questo limbo, in quanto così facendo non percepirebbe la NASpI, spettante solo laddove ricorra la giusta causa.

Tuttavia, tra le disposizioni integrative e correttive al CCI, la norma di cui al modificato comma 5, sopprime il riferimento temporale prospettando una soluzione di favore per il lavoratore coinvolto in una procedura di liquidazione giudiziale: le dimissioni rassegnate dal lavoratore dopo l’apertura della liquidazione giudiziale saranno, fatta eccezione per alcuni casi, da subito considerate per giusta causa. In assenza di quest’aggiornamento, le richieste dei lavoratori e delle Organizzazioni Sindacali sarebbero state orientate, presumibilmente, nel senso di sollecitare il curatore a un rapido recesso, al fine di poter conseguire nel minor tempo la NASpI e ricercare nel mercato una rioccupazione, salvo una pronta soluzione di continuità diretta o indiretta dell’attività aziendale.

Questa specifica ipotesi di attivazione della CIGS assicurava, pressoché automaticamente, a favore dei dipendenti, a seguito della dichiarazione di fallimento, una copertura assistenziale in grado di garantire loro un sostegno economico anche durante il periodo di sospensione.

E in seguito al suo venir meno gli operatori si sono resi conto della profonda gravità delle conseguenze derivanti dalla scelta in merito alla cessazione o sospensione dei rapporti di lavoro, ed in particolare dal fatto che in tale ipotesi i dipendenti venivano a trovarsi improvvisamente privi di qualunque forma di reddito e di copertura contributiva.

Nel caso, infine, di esercizio provvisorio dell’impresa, i rapporti di lavoro proseguono – salvo che il curatore non intenda sospenderli o esercitare la facoltà di recesso ai sensi della disciplina lavoristica vigente (art. 189, ultimo comma) – coerentemente con la disciplina dei contratti pendenti durante l’esercizio d’impresa (art. 211, comma 8), per il loro innesto nel ciclo economico dell’attività, in applicazione della regola della sua continuità; dovendosi poi ritenere, alla cessazione, la loro soggezione al regime di sospensione, secondo la regola generale (art. 211, comma 9) garanzia fondamentale che è quella della motivazione del licenziamento.

La motivazione del licenziamento consente la sindacabilità e la sindacabilità consente l’accesso alle sanzioni, quindi anche qui una deroga enorme allo statuto protettivo dei lavoratori.

Ora la norma affermando chiaramente che i rapporti di lavoro subordinato, in atto alla data della sentenza dichiarativa, vengano sospesi (comma 1 dell’art. 189), sembrerebbe chiudere la partita, nel senso appunto della sospensione automatica dei rapporti di lavoro, salvo ovviamente ragionare in tutt’altro senso se rientriamo nel caso della continuità aziendale (quindi comma 9) e lì vedremo chi ragiona a termini di sospensione ai sensi della legislazione vigente giuslavoriste e quindi applicazione della CIG.

Ma nonostante la norma sembri chiarissima ancora permangono dubbi. Interpretando l’art. 189, alcuni autori ritengono, invece, che la disciplina della sospensione debba comunque essere coordinata con la disciplina della CIGS sostenendo, fondamentalmente, che la norma vada interpretata alla luce della legge delega, quindi l’art. 7, comma 7, che demandava al legislatore questa operazione di coordinamento anche in tema di integrazione salariale.

Quindi vediamo come si verifichi una sorta di riproposizione anche dopo il testo che di fatto ha cristallizzato alcune scelte giurisprudenziali e, quindi, escluso altre, però ugualmente parte della dottrina giuslavorista ritiene di andare a rispolverare quelle risoluzioni migliorative per i lavoratori sulla base appunto del coordinamento con l’art. 7 della legge delega; c’è una sorta di trascinamento, se vogliamo, delle interpretazioni pregresse; dove si sospende, si sospende ai sensi della legislazione giuslavorista, dove non si sospende ai sensi della legislazione giuslavorista si sospende nel senso della legge speciale, quindi ai sensi dell’art. 189, e da questo punto di vista, anche e soprattutto dopo il correttivo che ha ripulito il comma 9 di alcune formulazioni non proprio felici foriere di molti problemi dal punto di vista sistematico, la soluzione sembra chiara.

Ma la partita interpretativa, questo dualismo che c’è nella mater giuslavorista, lo ritroviamo ancora di più accentuato in termini di licenziamento, da sempre l’istituto della materia dove questo tema della polarizzazione degli autori delle decisioni subisce di più, se vogliamo, anche l’appartenenza, il senso di appartenenza ideale che muove alcuni autori.

Sappiamo che in tema di licenziamento la Cassazione è stata chiarissima nello stabilire l’applicabilità dell’art. 72, l. fall., sebbene la tematica sia stata molto discussa e rispetto alla quale si siano manifestate una pluralità di opinioni.

In una valutazione complessiva di queste novità, si evidenzia, dunque, un micro sistema di regole sul licenziamento introdotto ad hoc per la crisi d’impresa nel CCI.

Questa opinione si deve confrontare però con quella parte di autori che invece ritiene, nonostante queste testuali distonie rispetto alla disciplina ordinaria dei licenziamenti, ancora applicabile la disciplina dei licenziamenti perché invoca e sposta il focus sul piano della compatibilità costituzionale e comunitaria.

Questo sistema, questo microsistema, fa leva sulla compatibilità con l’art. 24 della Carta Sociale Europea, con l’art. 30 della Carta di tipo parlamentare dell’Unione Europa e anche con la nostra Costituzione.

Con il nuovo 189 c’è un controllo preventivo dell’organo giudiziario che non c’è nei licenziamenti ordinari; quindi abbiamo un doppio divario e se manteniamo un’idea che il motivo c’è ed è quello il motivo, noi abbiamo sicuramente una tutela.

Più difficile la compatibilità della risoluzione automatica.

La risoluzione automatica è oggettivamente un problema, perché o assumiamo che il fatto che ci sia liquidazione giudiziale è di per sè motivo di licenziamento, ma sappiamo che fino ad oggi questo è stato smentito non solo dall’art. 2119, comma 1, sull’assunto che il fallimento non è giusta causa di licenziamento, quindi da questo punto di vista il tipo di interpretazione ha un respiro corto, oppure assumiamo che quella interpretazione abbia validità.

Ma se quel tipo di interpretazione non vale, a questo punto, si dovrebbe avallare l’idea verosimilmente di una cessazione di un rapporto senza motivazione, una risoluzione automatica, e questo ci porterebbe ad incontrare problemi di compatibilità comunitaria di cui si accennava, e si svuoterebbe anche tutto il resto della disciplina.

Perché, invero, quale curatore si andrebbe ad infilare nel tortuoso vortice dei licenziamenti per ingiustificato motivo sociale (comma 3 del 189), quando potrebbe semplicemente far decorrere l’inerzia e non avere problemi?